Per i militanti di sinistra era “mamma Carnevale”, la donna che aveva accusato i mafiosi di Sciara, in provincia di Palermo, come responsabili dell’omicidio del figlio Salvatore, il sindacalista socialista ucciso dalla mafia il 16 maggio 1955. Francesca aveva partecipato ai processi, celebrati per legittima suspicione fuori dalla Sicilia, il primo a Santa Maria Capua Vetere, il secondo a Napoli, costituendosi parte civile, e aveva visto gli imputati condannati in primo grado all’ergastolo (un fatto tanto inedito da far gridare al miracolo) e assolti in appello per insufficienza di prove (a ricostituire una prassi tanto abituale da essere considerata scontata).
Salvatore Carnevale aveva vissuto intensamente l’ultima fase delle lotte contadine, aveva coniugato da dirigente sindacale lotte per la terra e lotte operaie, battendosi per la riforma agraria, per le otto ore, scontrandosi con mafiosi e proprietari terrieri, come i Notarbartolo, padroni di Sciara. Francesca, che proveniva da un altro paese, Galati Mamertino, abbandonata dal marito, Giacomo Carnevale, presto vedova, si era trasferita a Sciara assieme ai fratelli; lì aveva allevato l’unico figlio, e per assicurargli il necessario era andata a lavorare nei campi. Il ricordo di quei giorni nel racconto a Carlo Levi, nelle pagine del libro Le parole sono pietre: «Andavo a lavorare per campare questo figlio piccolo, poi crebbe, andò a scuola ma era ancora piccolino, così tutti i mestieri facevo per mantenerlo. Andavo a raccogliere le olive, finite le olive cominciavano i piselli, finiti i piselli cominciavano le mandorle, finite le mandorle ricominciavano le olive, e mietere, mietere l’erba perché si fa foraggio per gli animali e si usa il grano per noi, e mi toccava di zappare perché c’era il bambino e non volevo farlo patire, e non volevo che nessuno lo disprezzasse, neanche nella mia stessa famiglia. Io dovevo lavorare tutto il giorno e lasciavo il bambino a mia sorella. Padre non ne aveva, se lo prese mio cognato qualche anno a impratichirsi dei lavori di campagna».
Salvatore frequenta la scuola fino alla terza elementare; ancora bambino va a giornata, prende il diploma di quinta elementare prima di partire per soldato, al ritorno comincia l’attività politica, fondando la sezione socialista. Alle elezioni del 1951 dice alla madre di votare Garibaldi (il simbolo del Blocco del popolo), Francesca promette ma davanti al simbolo della Democrazia cristiana non si sente di mantenere la promessa. «Ma io quando andai a votare e vidi quel Dio benedetto di Croce, pensai: ‘Questo Dio lo conosco. Come posso tradirlo per uno che non conosco?’ E misi il segno sulla Croce» (Levi, Le parole sono pietre). I voti per i socialisti in paese sono solo sette e Salvatore diventa un «Lucifero». Francesca non gli dice come ha votato, si dispera quando il figlio diventa segretario della sezione socialista: «…la sera che firmò e si mise a capo come segretario, io feci una seratina di pianto. ‘Figlio, mi stai dando l’ultimo colpo di coltello, non ti ci mettere alla testa. Il voto daglielo, ma non ti ci mettere alla testa, lo vedi che Sciara è disgraziata, è un pugno di delinquenti, vedi che sei ridotto senza padre e dobbiamo lavorare’. Ma lui rispose che erano tanti compagni e che non avessi paura. Io non volevo; ma ormai, madre di socialista ero, che dovevo fare?».
Francesca si schiera pubblicamente a fianco del figlio, partecipa all’occupazione delle terre. Così racconta la prima occupazione, sempre nel ’51, quando Salvatore aveva guidato i contadini ed era stato arrestato: «Eravamo andati alla montagna, eravamo più di trecento persone; mentre eravamo là che stavamo mangiando un poco, chi era seduto, chi passeggiava, e non c’era nessuno che danneggiasse, venne un brigadiere di Sciara con un carabiniere, dice: ‘per favore, per favore, per favore togliere la bandiera’. Perché c’erano le bandiere che tenevamo sventolate. I contadini dicono: ‘No, perché dobbiamo togliere le bandiere, per quale motivo? Non è che le bandiere fanno male. Qui non è che stiamo facendo guasti’. Ma il brigadiere dice: ‘Allora andiamo al paese’. Ce ne andammo al paese. Quando arrivammo un po’ di via lontano, vedemmo di sotto la polizia col commissario e ci fermarono: ‘In alto le mani’. Noi non avevamo né fucili né scoppette, niente. Ci fermarono e presero tutti i nomi e cognomi…». I carabinieri si lamentano: sulle terre si sono sporcati scarpe e pantaloni; Francesca risponde: «Ma per noi (…), per noi questa giornata è la più bella giornata del mondo: bella, tranquilla, col sole. Questo è un divertimento che noi non abbiamo preso mai. Se non ci date le terre incolte, secondo la legge (perché si devono perdere?) ne avrete da fare di queste giornate. Questa è la prima che state facendo». Salvatore viene chiamato in municipio, crede di andare a un incontro di chiarimento e viene arrestato con altri tre. Rimarranno nel carcere di Termini per dieci giorni, saranno rinviati a giudizio e solo nell’estate del ’54 saranno assolti.
Uscito dal carcere, Salvatore si reca a lavorare in Toscana dove rimane due anni. Ritorna nell’agosto del 1954. Viene assunto dalla ditta Lambertini di Bologna, che per i lavori di costruzione del doppio binario ferroviario sfrutta una cava di proprietà dei Notarbartolo, sotto il controllo dei mafiosi.
Salvatore organizza gli operai, chiede l’applicazione della giornata lavorativa di otto ore (lavoravano undici ore). Francesca racconta che dopo uno sciopero il maresciallo chiama suo figlio e gli dice: «Tu sei il veleno dei lavoratori»; Salvatore risponde che vuole far rispettare la legge e il mafioso Mangiafridda, che è accanto al maresciallo, gli dice: «Picca (poco) n’hai di sta malandrineria». Il “malandrino” è il sindacalista, sono lui e gli operai in lotta per l’applicazione di una legge gli eversori dell’ordine costituito, mentre il mafioso è con le forze dell’ordine: al di là delle divise e dei ruoli ufficiali, le parti sono assegnate e le forze in campo nettamente delineate. I mafiosi minacciano e tentano la carta delle promesse: se si ritira avrà “una buona somma”, ma se continua finirà male. E Salvatore risponde, è sempre Francesca a raccontarlo: «Chi uccide me uccide Gesù Cristo». E ancora: «Io non sono una carne venduta, e non sono un opportunista». Il mattino del 16 maggio sulla strada per la cava Salvatore cade sotto i colpi di mafiosi perfettamente individuabili ma rimasti impuniti.
Francesca dopo la morte del figlio ne raccoglie l’eredità, accusa i mafiosi e denuncia la complice passività delle forze dell’ordine e della magistratura. Dopo l’assoluzione, celebra davanti a tutti coloro che la visitano nella sua casa poverissima, un solo vano stretto e lungo, un suo processo, civile e politico, in nome di una giustizia che disprezza quella ufficiale e non attende quella divina. «Niente altro esiste di lei e per lei se non questo processo che essa istruisce e svolge da sola, seduta nella sua sedia di fianco al letto: il processo del feudo, della condizione servile contadina, il processo della mafia e dello Stato. Essa stessa si identifica totalmente con il suo processo e ha le sue qualità: acuta, attenta, diffidente, astuta, abile, imperiosa, implacabile. Così questa donna si è fatta in un giorno: le lacrime non sono più lacrime ma parole, e le parole sono pietre. Parla con la durezza e la precisione di un processo verbale, con una profonda assoluta sicurezza, come chi ha raggiunto d’improvviso un punto fermo su cui può poggiare, una certezza: questa certezza che le asciuga il pianto e la fa spietata, è la Giustizia. La giustizia vera, la giustizia come realtà della propria azione, come decisione presa una volta per tutte e a cui non si torna indietro: non la giustizia dei giudici, la giustizia ufficiale. Di questa Francesca diffida, e la disprezza: questa fa parte dell’ingiustizia che è nelle cose» (Levi, Ibidem).
Questo processo Francesca l’ha fatto, anche silenziosamente, partecipando a manifestazioni pubbliche, accanto a Sandro Pertini, che l’aveva accompagnata quando si era recata dal procuratore della Repubblica e aveva collaborato alla stesura dell’esposto, ad altri dirigenti del Partito socialista finché il partito più antico d’Italia, che ha pagato il più alto prezzo di sangue nella lotta contro la mafia, è rimasto legato alle sue origini.
Col passare del tempo e con il mutare del quadro sociale e politico, per Francesca sono cominciati la solitudine e l’oblio. E’ morta a 89 anni, il 18 luglio del 1992. Pochi ricordano una protagonista di quella storia negata che è la storia delle donne di Sicilia, il loro ruolo nelle lotte popolari, dalle contadine dei Fasci ai nostri giorni. Nel piccolo cimitero di Sciara Salvatore è sepolto lontano da lei. Sotto il cognome e il nome, le date di nascita e di morte (23.9.1923 - 16.5.1955) e la scritta «una prece». Come se fosse un morto qualunque.
Umberto Santino, Storia del movimento antimafia. Dalla lotta di classe all’impegno civile, Roma, Editori Riuniti 2009
Referenze iconografiche: Francesca Serio con Carlo Levi, Archivio Centro Impastato
Voce pubblicata nel: 2012
Ultimo aggiornamento: 2023