La neonata Fillide compare al mondo l’8 gennaio del 1581 quando, di domenica, la madre sedicenne Cinzia Guiducci e il padre Enea, ultimo e forse non più giovanissimo discendente di una famiglia della nobiltà senese, la portano al fonte di San Giovanni per ricevere il battesimo sotto la volta affrescata dal Vecchietta e sulla vasca ornata e resa monumentale dall’opera di Jacopo della Quercia, Lorenzo Ghiberti e Donatello.
Delle vicende seguenti - dell’infanzia trascorsa a Siena e della sua famiglia - non si hanno notizie, per quanto documenti posteriori facciano intendere che, probabilmente a seguito della morte del padre, Fillide con Cinzia e il fratellino Niccolò, siano scese a Roma per unirsi al resto della famiglia: a Silvio, figlio di primo letto di Enea più grande di Fillide di sei anni, e alla zia materna Piera, maritata a un tal Giovanni «battiloro». Ed è appunto nell’Urbe che la incontriamo ai suoi tredici anni quando, forse anche per lo stato di indigenza in cui si trovava essendo la madre gravemente ammalata, Fillide adolescente e già donna si prostituisce occasionalmente. Un verbale di polizia del 22 aprile del 1594 ci informa infatti che la notte precedente «Donna Filidia d'Enea Senese» in compagnia di due uomini e di una certa Anna Bianchini romana, nei pressi del monastero delle clarisse di San Silvestro, era incappata nei birri in ronda. E poiché i quattro andavano in giro a buio e «fuor delli luoghi soliti», cioè fuori della zona del bordello (sorta di ghetto voluto da Pio V per relegarvi le meretrici) tutti furono «presi et menati prigioni in Tor di Nona».
L’anno seguente Cinzia muore a trent’anni e Fillide tira avanti con l’aiuto della zia Piera e del fratellastro Silvio che faceva il cuoco, cresce il piccolo Niccolò e in sodalizio con Anna Bianchini, l’amica di quei giorni magri, affronta stenti, indigenza e marginalità. Tra il 1596 e il 1597 le due giovani abitano sotto Trinità dei Monti, nei pressi dell’osteria-locanda «all’insegna della Serena» luogo equivoco per eccellenza dove le meretrici, con la compiacenza dell’oste, intrattenevano soldati, forestieri e gente di malaffare.
Sono anni di quotidiane violenze: fra provocazioni e insulti, aggressioni notturne, risse di strada e accapigliamenti fra donne rivali. Circostanze che, anche quando la portano in carcere, Fillide sceglie di affrontare da sola affidandosi alla giustizia pubblica, anziché accettare l’aiuto interessato di qualche occasionale lenone. E quando grazie alle carte criminali accade di sentirla parlare, Fillide, pur così giovane, si mostra sempre risoluta e ben intenzionata a distinguersi da quella «gente bassa» che allora era costretta a frequentare e per questo si esprime con un linguaggio vigilato e conveniente, segno, oltre che delle sue origini e dell’educazione ricevuta, anche della determinazione a raggiungere una posizione di rispetto sociale che soltanto una protezione autorevole e socialmente accreditata le avrebbe assicurato. Ed è proprio ciò che accadde quando, sedicenne, entrò in contatto con i fratelli Tomassoni. Erano questi uomini d’arme di piccola nobiltà, originari di Terni e che nell’Urbe, forti delle loro più o meno altolocate conoscenze, gestivano un giro di cortigiane da offrire a gentiluomini, giudici, bargelli, notai e gente di curia dai quali ottenere favori.
La sua vita cambia allora sensibilmente. Va a vivere con Niccolò «in Strada Aragonia» (l'attuale via Condotti), può permettersi una «serva puttana» di nome Francesca e quando trasgredisce ai bandi del Governatore non deve più renderne conto alla giustizia. Come si vede da quanto accadde in una notte di Carnevale – l’11 febbraio del 1599 – nella sua casa ai Condotti dove «si faceva gran ridotto de giovani» giocando a carte e a dadi, danzando e facendo musica al canto di amorose canzonette. Sarà stato perché il festino non era autorizzato; o perché gli schiamazzi e qualche oscenità avranno disturbato e turbato la quiete del vicinato; o perché, trasgredendo ai bandi del Governatore di Roma, i giovani indossavano armi espressamente vietate in casa di cortigiane, sta di fatto che nel bel mezzo della festa una compagnia di sbirri in ronda notturna irruppe fra i convitati. Terminato il fuggi-fuggi generale, davanti al caporale Moretto luogotenente del bargello, non restarono che Fillide e tre uomini uno dei quali era Ranuccio Tomassoni – il più giovane dei quattro fratelli e diversamente da loro più cortigiano che soldato – il quale armato di spada, ma evidentemente sicuro che a lui nulla sarebbe potuto accadere, si era trattenuto lì proprio con il proposito di proteggere la padrona di casa e assicurarle l’impunità. Difatti la cortigiana, così come il suo amico, fermati dagli sbirri quella sera, la mattina seguente furono rimessi in libertà.
Ma se la tutela di Ranuccio e dei suoi fratelli teneva Fillide al riparo dalla giustizia capitolina, nel clima di rigore imperante alla vigilia del Giubileo, la sua vita irregolare e licenziosa, tra quotidiano mercimonio e chiassosi festini notturni, non le fece passare il vaglio del parroco che, durante la visita pasquale di qualche giorno dopo, censì la Melandroni nel Libro delle Anime della parrocchia di Sant’Andrea delle Fratte come «Corteggiana scandalosa».
Sul finire dell’anno seguente, il 1600, la preferita di Ranuccio sembra esser diventata la più giovane Prudenza Zacchia e Fillide non si trattiene dal cogliere in flagrante i due amanti. Forse lo fa perché accecata dalla gelosia, o per la rabbia di aver perso la posizione di primadonna nel giro amministrato dai Tomassoni, o invece – non si può escludere – per difendere sé stessa, le colleghe e tutti i loro influenti clienti dal mal francese di cui si diceva fosse affetta la bella Prudenza. E così, scovatala sotto le lenzuola con Ranuccio, Fillide la insulta, l’aggredisce, la prende a calci e pugni, le strappa i capelli e tenta ripetutamente di sfregiarla con un coltello che, prontamente sviato, ferisce Prudenza ad una mano. Ranuccio allora allontana Fillide da sé e da tutti e a lei, caduta in disgrazia, nessuno porterà aiuto per evitarle l’arresto, il carcere e la condanna.
Ormai fuori dal giro dei Tomassoni alla cortigiana non resta che provare ad esercitare il mestiere in autonomia, mettendo a profitto i rapporti con i clienti potenti e titolati di sua conoscenza. Naturalmente non senza incorrere nei rischi del caso come quando, nel luglio del 1601, viene arrestata nottetempo dagli sbirri alla Scrofa con Ulisse Masetti, «spenditore» al servizio dal cardinale Benedetto Giustiniani, proprio mentre si stava recando in Rione Sant’Eustachio per raggiungere il palazzo dell’illustre porporato. Durante la detenzione Fillide e Ulisse vengono sottoposti dal magistrato a stringenti interrogatori nel corso dei quali la cortigiana, prima cercò di tener lontano il nome del cardinale suo cliente dalle carte processuali col dire che si stava recando da «Asdrubale a dormine» (ossia da uno dei luogotenenti del bargello di Roma, dando così ad intendere di godere della sua protezione), poi provò a sottrarsi dall’accusa, all’epoca assai insidiosa, di aver traviato il novello sposo Masetti sottraendolo al letto coniugale. Per parte sua Ulisse, pur facendo di tutto per retrodatare i loro incontri a prima del suo matrimonio ed evitare così di essere accusato di adulterio, dovette infine ammettere di aver avuto a che fare carnalmente con lei e anche di averle donato una veste di taffettà e a nulla servì metter in mezzo il nome ben noto di Ranuccio Tomassoni che non si mosse né per lui, né per la sua ex-amica, definitivamente uscita dalla sfera del suo diretto interesse. Cosicché, a due giorni dal loro arresto, non essendosi presentato nessuno a fornire la cauzione prevista per il rilascio, Ulisse Masetti fu rinviato a giudizio e la Melandroni (essendo quella la quarta volta che finiva in carcere) non si può escludere che sia stata processata, condannata e forse anche esposta al ludibrio della pubblica frusta.
Da quando Ranuccio l’aveva allontanata da sé, Fillide aveva lasciato la casa di via Aragonia ai Condotti per traslocare, poco lontano e sempre ai Condotti, «alla cantonata della strada della Croce», vicino alla zia Piera che nel frattempo era rimasta vedova. Una sistemazione che si protrasse fino alla fine dell’estate del 1602 nel corso della quale si impegnò a mettere ordine nella propria vita cominciando col prendere in affitto un alloggio in via del Babbuino sul lato di via Margutta, in un palazzo di proprietà del nobile banchiere senese Tiberio Ceuli dove, ricongiuntasi al resto della famiglia, andò ad abitare assieme alla zia e al fratello Silvio. Inoltre, per rifarsi una reputazione, prese a tenere un comportamento più decoroso e formalmente devoto che comportava il rispetto del precetto pasquale.
Ciononostante sul finire di quello stesso anno, il 1602, la troviamo impegnata in un agguato per strada ai danni di due note cortigiane: Amabilia Antognetti e sua sorella Maddalena, gravida e prossima al parto. L’aggressione organizzata con l’aiuto della zia Piera e della sua serva lascia pensare che la Melandroni faticasse a ritrovare un suo spazio fra concorrenti e rivali e dato che la quiete fra le donne fu presto ristabilita, sembra di poter dire che proprio in quella circostanza Fillide sia riuscita a tornare nell’orbita dei Tomassoni, ma stavolta nella persona di Giovan Francesco, il più autorevole dei fratelli, che l’aiuterà ad imprimere un’altra e ben più significativa svolta alla sua vita.
Tra il 1603 e il 1605, nella piena maturità dei suoi 22-23 anni, Fillide sembra avviarsi verso una serena agiatezza coltivata di pari passo alla stabilità sociale. È a capo di un piccolo nucleo familiare composto – dopo che Silvio, messa su famiglia, se n’era andato a vivere per suo conto – dalla zia Piera, da due servitori, da Geronima Ortensia Cassia cortigiana quindicenne e dal putto Giovanni di 4 anni, uno dei «fanciullini esposti» dell’Ospedale di Santo Spirito in Sassia, forse un suo figlio che alla nascita aveva dovuto affidare alla ruota di legno e che ora può permettersi di riavere con sé a conferma della raggiunta condizione di rispettabilità e di benessere che aveva vagheggiato fin da giovinetta. Siamo nella prima metà del 1604 e oltre alle opere di carità e alla cura delle pratiche devozionali, Fillide fa da madrina a tre neonati ai quali furono imposti i nomi di Fillide, Giovanni Battista e Alessandro. A quest’ultimo, assieme a lei seppure per procura, fu padrino addirittura il principe della Chiesa Alessandro Peretti Damasceni, a tutti noto come il Cardinal Montalto.
La conquista dello status di cortigiana honesta si svolge in parallelo, o forse proprio grazie, alla relazione che Fillide inizia in quello stesso periodo con il nobiluomo veneziano Giulio Strozzi, di due anni più giovane e figlio naturale di Roberto, banchiere fiorentino che aveva operato a Venezia. Dopo gli studi in utrique iure a Pisa, Giulio si era trasferito stabilmente a Roma per intraprendere, in ottemperanza della volontà paterna, la carriera ecclesiastica presto trascurata per soddisfare invece la sua passione per le lettere, il teatro, le accademie, la vita mondana e la sua cortigiana.
Il legame che si stabilì fra i due è confermato da quel Ritratto di una cortigiana chiamata Filide (andato disperso a Berlino nel 1944, vedi foto) che nel 1604 Giulio Strozzi commissionò a Michelangelo Merisi da Caravaggio per farne dono all’amata, forse per soddisfare un suo recondito desiderio, se non addirittura una sua esplicita richiesta. È facile immaginare con quanto piacere Fillide si sia messa in posa davanti al pittor celebre che anni prima, quando lei si frequentava con Anna Bianchini, aveva preso per modella la sua sfortunata amica e che, ultimamente, teneva per sua modella Maddalena Antognetti, donna di grande avvenenza e cortigiana honesta.
In quell’immagine di sé che Caravaggio ritraendola le aveva rivelato, Fillide si indirizza allo spettatore con sguardo astuto e accattivante mostrandosi, nel volto investito dalla chiara luce del giorno, donna graziosa seppure non di rara bellezza, di chiaro incarnato e corvina di capelli che, come le cortigiane di Venezia, porta raccolti in un’alta e vistosa acconciatura di riccioli ricadenti ai lati del viso. Indossa un sobrio corpetto impreziosito da ricami a filo d’oro che, attorno alla severa scollatura, lascia uscire a mo’ di guarnizione il suo taffettà giallo, quel velo che ogni cortigiana era tenuta a indossare in pubblico come segno di riconoscimento. Le ampie e candide maniche della camicia fanno risaltare i monili di cui Fillide si è ornata (un bracciale di pasta vitrea e un paio di pendenti di perle scaramazze forse doni di Giulio fatti venire per lei da Venezia) e il loro candore ancora di più attira l’attenzione su quel rametto di fiori di gelsomino che con gesto lieve si accosta graziosamente al petto. È l’aromaticissimo bianco di Spagna, simbolo di amabilità e di sensualità e fiore assai caro ai Medici di cui Fillide, nata a Siena, sembra voler ricordare di essere suddita.
Per quanto Caravaggio non abbia mai chiesto alla Melandroni di far da santa o da madonna per uno dei suoi quadri, da quasi un secolo e proprio in base a questo ritratto (oggi l’unico al femminile che ci sia noto della ricca ritrattistica caravaggesca) la critica ha ritenuto che la Fillide avesse posato in altri tre quadri del pittore: Santa Caterina d’Alessandria (Madrid, Museo Thyssen-Bornemitsza), Marta e Maria Maddalena (Detroit, Institute of Arts) e Giuditta che decapita Oloferne (Roma, Galleria di Palazzo Barberini). Tutte opere in cui, più che i caratteri somatici della nostra Fillide Melandroni, è dato piuttosto riconoscere l’espressiva bellezza di un’altra cortigiana del tempo, Maddalena Antognetti, come ricerche recentissime hanno definitivamente rivelato.
Anche se Fillide non fu modella del pittor celebre e neppure, come tanti vorrebbero, sua amante, non dovette lasciarla indifferente la notizia che Ranuccio Tomassoni e Michelangelo Merisi si erano scontrati in duello e l’uomo, che era stato il suo amico fisso e aveva fatto di lei una «Cortigiana scandalosa», era stato colpito a morte da chi l’aveva così ben ritratta nel quadro che campeggiava nella sala della nuova casa che aveva aperto a via Frattina. Lì, accanto al suo amante, Fillide visse anni di vita tranquilla, in pubblico ménage, aiutata da Maddalena sua alunna e da Ortensia Cassia serva e cortigiana e sempre ben attenta a consolidare le sue condizioni economiche e il suo status. Intanto Giulio Strozzi nel 1608 fondava l'Accademia degli Ordinati preparandosi, fra poeti e letterati, a diventare, come commediografo e librettista, uno dei personaggi di spicco della cultura musicale italiana che avrebbe dato avvio alla fortunata stagione del melodramma.
Ma quei giorni felici, trascorsi tra amore e mondanità, furono bruscamente interrotti quando Roberto Strozzi, per metter fine alla peccaminosa relazione, se non al concubinaggio del figlio con la sua cortigiana, si rivolse al pontefice Paolo V Borghese che intervenne per separare gli amanti.
Così nei primi giorni di aprile del 1612 si diffonde e giunge anche a Firenze, la notizia che «all'improviso d'ordine del Papa è stata presa una tal Fillide famosa cortegiana et mandata fuori di Roma con ordine che non vi debba più tornare». Invece l’esilio fu di breve durata ed è facile che la Melandroni lo abbia trascorso nella sua città natale, in parte forse anche con Giulio che comunque, sempre più attratto dalla vita d’artista tra Firenze, Padova, Urbino e Venezia, si stava preparando a lasciare gli impegni in Curia di referendario e la sua carica onorifica di protonotario apostolico nonché Roma stessa.
Nel 1614 Fillide è di nuovo documentata nell’Urbe dove aveva mantenuto casa, beni e la sua piccola famiglia e dove, assistita dal vecchio amico Giovan Francesco Tomassoni fratello di Ranuccio, l’8 ottobre, a trentadue anni, nell’ufficio del notaio Tranquillo Pizzuti, dettò il suo testamento.
Com’era d’obbligo per ogni cortigiana la Melandroni assegna al monastero delle Convertite la quinta parte della sua eredità e per i restanti beni, mobili e immobili, nomina eredi universali i suoi nipoti Nicola e Giacomo Melandroni, figli del fratello Silvio nel frattempo deceduto, senza dimenticare la zia Piera alla quale lascia 50 scudi e Maddalena, sua «alunna» ora in età da marito, cui devolve la cospicua dote di 100 scudi perché si possa ben maritare. Per raccomandare la sua anima, e secondo le consuetudini correnti, Fillide dispone vari legati a chiese diverse (Santa Maria in Costantinopoli, Santa Maria del Carmine, Sant’Andrea delle Fratte e San Martino ai Monti) e inoltre, forse con un pensiero rivolto a Giovanni che allora doveva avere sui 14 anni, dispone un lascito al Collegio dei poveri fanciulli letterati dell’Urbe. Quanto al suo ritratto dipinto dal Caravaggio, che sembra ancora tenere in casa sua gelosamente, dispone che venga restituito e consegnato a Giulio Strozzi cui appartiene.
Quattro anni dopo, il 3 luglio del 1618, Fillide Melandroni muore «alla strada de Borgognoni» e nel rispetto delle sue volontà viene sepolta nella chiesa di San Lorenzo in Lucina. In quello stesso giorno, il notaio del monastero delle Convertite fu inviato a casa sua per redigere l’inventario dei molti beni che fra mobili, suppellettili, gioielli, abiti, «luoghi di monte» e «società d’ufficio» risultano ammontare a complessivi 1372 scudi.
Del ritratto di mano del Caravaggio l’inventario non fa menzione, ma il contenzioso sorto dopo la morte della Melandroni fra Felice de’ Rossi, sua cognata e madre tutrice dei suoi due eredi, e lo Strozzi, che avendo lasciato Roma per Venezia agisce per il tramite di un suo agente, lascia supporre che l’oggetto del contendere fosse proprio l’opera del Caravaggio. Cioè quel “Ritratto di una Cortigiana chiamata Filide” che - non sappiamo per decisione o per mano di chi - fu nel frattempo venduto al marchese Vincenzo Giustiniani, banchiere e collezionista, nonché fratello di quel cardinale Benedetto che, anni prima, aveva conosciuto intimamente «Fillide famosa cortegiana».
A Venezia, nell’agosto dell’anno seguente (1619), Giulio diventò padre di una bambina, quella Barbara Strozzi che nove anni dopo avrebbe riconosciuto come sua «figliuola elettiva» e che dal padre, con il suo cognome, ricevette l’amore per la musica e la poesia divenendo musicista e cantante di grandissimo talento.*
* Questo aggiornamento (8 marzo 2022) della precedente biografia di Fillide Melandroni del 2016, si avvale di un’ulteriore ricerca condotta presso gli archivi di Roma, Firenze e Siena di prossima pubblicazione.
Fiora Bellini ©
F. Bellini, Caravaggio lo spadaccino e le sue cortigiane, in L'Unità, 9 dicembre 1992
R. Bassani - F. Bellini, Caravaggio assassino: la carriera di un valent’huomo fazioso nella Roma della Controriforma, Roma 1994, fig. 7, pp.67-68,72-79,82,93,107,121,133,243
F. Bellini, Melandroni Fillide, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 73, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2009 pp. 229-232
R. Bassani, La donna del Caravaggio. Vita e peripezie di Maddalena Antognetti, con postfazione di F. Bellini, La Modella e il pittor celebre: una storia in sette quadri, Donzelli Editore, 2021, pp. 8 e n, 61n, 78n,82,89n,122, 128n, 132 e n, 133 e n,143 e n, 135, 143, 201n, 202n, 296-301,330n.
Sul Web molti siti dedicano una o più pagine a Fillide Melandroni, replicando e più spesso alterando quanto scritto in Caravaggio assassino senza citarne la fonte.
Referenze iconografiche: Ritratto di una cortigiana di nome Fillide, 1604. Già Kaiser-Friedrich-Museum, Berlin (disperso nel 1945).
Voce pubblicata nel: 2022
Ultimo aggiornamento: 2024