La vita di Elizabeth Cleghorn Stevenson è straordinariamente intensa di viaggi, eventi, incontri e, per questo, invidiabile persino secondo i canoni del XXI secolo. Tuttavia è segnata sin dall’infanzia da circostanze drammatiche. Si tratta di una lunga serie di avvenimenti funesti, come la morte della madre, Elizabeth Holland, quando Elizabeth aveva appena un anno, seguita, l’anno successivo, dal quella della giovane cugina Mary Anne Lumb che, con la grande bontà d’animo che la caratterizzava, si era offerta di adottarla (in realtà non avrà la possibilità di farlo poiché muore il giorno stesso in cui si sarebbe dovuta recare dal notaio per ratificare l’adozione).
Ad aggravare la solitudine della piccola, due volte orfana di madre, c’è il matrimonio del padre e la costituzione quindi di una nuova famiglia da cui Elizabeth sarà tenuta a distanza, mentre l’unico e amatissimo fratello, John Stevenson, finirà disperso nell’oceano durante un viaggio in India nel 1828. In realtà, di fratelli e sorelle più grandi Elizabeth ne aveva avuti in tutto sette, ma John era l’unico sopravvissuto agli anni dell’infanzia. La serie di eventi funesti continua: prima, con la morte del padre, colto da ictus fatale a seguito della notizia della scomparsa del figlio; dopo, con il parto della primogenita di Elizabeth, nata morta nel 1833. Infine, nel 1845, morirà anche il suo unico figlio maschio, di dieci mesi.
Il carattere spontaneamente vivace e gioioso, seppure sensibilissimo, di Elizabeth la aiuterà a elaborare questa serie di lutti, che saranno trasfigurati in alcuni eventi e personaggi presenti nei romanzi (in Ruth per esempio, con Leonard in lacrime al capezzale della madre appena spirata). D’altro canto, paradossalmente, quella di Elizabeth si può considerare una vita davvero ricca: di gioie, di soddisfazioni, di affetti, di amicizie e persino di gratificazioni economiche niente affatto trascurabili, dovute queste ultime al mestiere di scrittrice.
A fare da contraltare alle sventure dell’infanzia, infatti, c’è l’affetto prodigato su di lei dalla rete di parenti più o meno stretti che la accolgono amorevolmente nella casa di Knutsford, poco distante da Manchester. Si tratta della famiglia materna, gli Holland, che si occupa della formazione iniziale di Elizabeth e sarà sempre un punto di riferimento nella sua vita. Da adulta, un matrimonio felice con un uomo schivo ma molto innamorato, onesto e generosamente altruista, assieme alla nascita di quattro figlie amorevoli e sempre presenti, renderanno Elizabeth una donna realizzata in quanto moglie e madre.
Sì, perché – nonostante le cene con l’intellighenzia del tempo, gli eventi mondani, i ripetuti viaggi in Svizzera, Francia, Italia, Germania e Belgio – Elizabeth resta una donna del suo tempo, quindi una donna per la quale la realizzazione suprema rimane la famiglia. D’altronde, in un’epoca ricca di contrasti come quella Vittoriana, si intrecciano tendenze opposte, per cui, se da un lato alle donne “si insegnava ogni cosa in ragione inversa della sua importanza” 1, dall’altro è proprio adesso che si va affermando il movimento femminista. Non si può definire la Gaskell femminista tout court, ma donna emancipata, senza dubbio. E anzi, si potrebbe arrivare persino a suggerire che in un romanzo come Ruth vi sia una sottile, ma nemmeno tanto implicita, denuncia delle sofferenze a cui sono sottoposte le donne abusate da uomini superficiali e prepotenti, e della assoluta mancanza di condanna da parte della società per tali abusi.
Lei però diventa scrittrice non perché abbia consapevolezza della crescente presa di coscienza collettiva della condizione femminile, né perché tormentata da un istinto creativo che cerca di venire alla luce tramite penna e calamaio, né tanto meno perché spinta da ambizioni di successo. Elizabeth inizia a scrivere dietro suggerimento del marito, William Gaskell, il quale, testimone impotente dello stato di prostrazione in cui si era ridotta la moglie alla morte del figlio, intuisce finemente come la scrittura sarebbe potuta essere una evasione dalla cupezza di quella quotidianità insostenibile e avrebbe potuto contribuire al superamento del trauma. Nessuno avrebbe immaginato, allora, l’ampiezza del successo che sarebbe arrivato da lì a poco.
Se ciò accade, il merito va in gran parte – oltre che alle indubbie doti narrative dell’autrice – al supporto che Elizabeth riceve inizialmente dagli Howitt, che le offrono l’opportunità di pubblicare i primi lavori e, in seguito, al riconoscimento di Charles Dickens.
Mary Barton (1848) è il primo romanzo: vi appare evidente un tratto tendente a limitare intensità e naturalezza della pur straordinaria scrittura gaskelliana, che scomparirà gradualmente nei lavori successivi, ove una propaganda moralista, preoccupata affinché i peccatori siano rigorosamente puniti secondo i precetti del tempo, accompagna gli eventi con commenti non sempre funzionali allo svolgimento della trama. Il basso continuo di questo romanzo, come di altri che seguiranno (vedi North and South, 1855), è l’impossibilità di una comunicazione efficace tra esseri umani, soprattutto tra la classe operaia e quella benestante degli imprenditori – impossibilità incarnata drammaticamente dall’operaio John Barton, protagonista maschile della storia nonché padre della Mary eponima, e dal suo rapporto con il ricco Henry Carson. All’uscita del romanzo, pubblicato anonimo, i lettori furono colpiti dalla presa di posizione evidentemente anticonformista di Elizabeth, di fatto a favore della classe operaia. John Barton è, sì, reo dell’assassinio di Carson, però rivela una natura tragicamente (e sorprendentemente) nobile, in grado di punire se stesso per l’omicidio commesso, attraverso un rimorso foriero di morte.
Con Mary Barton, Elizabeth entra quindi a pieno titolo tra gli scrittori maggiori del tempo, attirando l’attenzione di un Charles Dickens all’apice del successo, il quale ne diviene mentore, sponsor, ammiratore. È lui che la sprona a scrivere ancora, proponendole varie collaborazioni e introducendola nell’ambiente elitario dei più importati scrittori e critici del tempo.
Tra questi, sebbene l’occasione si presenti non grazie a Dickens ma tramite conoscenze riconducibili all’ambiente di Knutsford, fondamentale è l’incontro con Charlotte Brontë, che porterà – in nome della profonda ammirazione reciproca e affettuosa amicizia che le avrebbe di lì a poco legate – all’idea di scrivere The Life of Charlotte Brontë (1857). Questa biografia nasce dalla volontà – non solo di Elizabeth, ma anche del padre di Charlotte, Patrick Brontë, e del vedovo, Arthur Nicholls – di rendere nota, tanto al pubblico coevo quanto ai posteri, la donna dietro l’autrice e, nel farlo, renderle onore.
Non a caso, per evidenti motivi di decenza, Elizabeth decide di omettere con discrezione la reale natura dei sentimenti che avevano legato Charlotte a Monsieur Heger. Tuttavia, nonostante questa e altre cautele, la biografia desta un clamore assordante e insopportabile, costringendo Elizabeth a fare fronte a tutta una serie di problemi legali e pesanti critiche che gravano a lungo sull’equilibrio emotivo dell’autrice.
Le parole a chiusura della biografia sono illuminanti per comprendere lo spirito di questo lascito:
Non ho molto altro da dire. Se i miei lettori trovano che non abbia detto abbastanza, ho detto fin troppo. Non posso misurare o giudicare un personaggio come il suo. Non posso tracciare una mappa dei vizi, delle virtù e della terra di confine […]. Volto le spalle al pubblico critico e insensibile – incline a giudicare severamente perché si limita a osservare superficialmente, senza riflettere con profondità. Mi rivolgo a un pubblico più ampio e solenne, che sa come guardare i difetti e gli errori con tenera umiltà; che sa come ammirare generosamente e come riverire con cuori pieni e caldi e con nobile purezza un genio straordinario. A quel pubblico affido la memoria di Charlotte Brontë. I have little more to say. If my readers find that I have not said enough, I have said too much. I cannot measure or judge of such a character as hers. I cannot map out vices, and virtues, and debateable land [...] I turn from the critical, unsympathetic public – inclined to judge harshly because they have only seen superficially and not thought deeply. I appeal to the larger and more solemn public, who know how to look with tender humility at faults and errors; how to admire generously extraordinary genius and how to reverence with warm, full hearts and noble virtue. To that Public I commit the memory of Charlotte Brontë. 2.
I have little more to say. If my readers find that I have not said enough, I have said too much. I cannot measure or judge of such a character as hers. I cannot map out vices, and virtues, and debateable land [...] I turn from the critical, unsympathetic public – inclined to judge harshly because they have only seen superficially and not thought deeply. I appeal to the larger and more solemn public, who know how to look with tender humility at faults and errors; how to admire generously extraordinary genius and how to reverence with warm, full hearts and noble virtue. To that Public I commit the memory of Charlotte Brontë. 2.
Secondo Mr. Brontë, questa si sarebbe collocata tra le più celebri biografie di tutti i tempi 3 – e così è stato. Ottanta anni dopo, Mario Praz l’avrebbe definita “magistrale” 4.
Nello stile narrativo di Elizabeth si può scorgere una interessante parabola, nella quale la voce autoriale, inizialmente piuttosto prepotente e smaniosa di disseminare i suoi intenti moralistici, si affievolisce sempre più, per lasciare che siano i personaggi a parlare, ognuno col proprio timbro e la propria personalità. Se, quindi, nei primi racconti – in Mary Barton e, maggiormente, in Ruth, ma anche in North and South e in Sylvia’s Lovers – vi è un dichiarato intento moralizzatore, influenzato probabilmente dall’attività di volontariato che Elizabeth conduceva accanto al marito, ministro della chiesa unitariana, in Wives and Daughters questa voce a tratti ingombrante scomparirà del tutto, per lasciare la scena a una caratterizzazione a tutto tondo di ogni personaggio, inclusi quelli secondari. Non a caso, quindi, proprio quest’ultimo romanzo è generalmente considerato il capolavoro di una carriera comunque di altissimo livello.
Conclusa l’immane fatica di Wives and Daughters, scritto e pubblicato mensilmente mentre Elizabeth è alle prese con una serie di circostanze non semplici da gestire – tra cui un viaggio a Parigi, uno a Londra, alcune settimane di malattia e, non da ultimo, l’acquisto di una casa di campagna – Elizabeth può finalmente rilassarsi. La nuova casa era stata acquistata e arredata di nascosto dal marito, a cui Elizabeth voleva fare una sorpresa: quello sarebbe stato il luogo perfetto per trascorrere insieme, con serenità e lontano dall’aria malsana di Manchester, gli anni della vecchiaia; inoltre, un domani, quella casa avrebbe assicurato una dignitosa indipendenza alle due figlie non sposate. Qui si riuniscono per un fine settimana quasi tutti i componenti della famiglia per festeggiare la nuova casa e l’arredo appena completato. Tutto è pronto per la grande sorpresa, non restava che rivelarla al marito. Purtroppo Elizabeth non ne avrà modo perché, durante il pranzo, circondata dall’allegria e spensieratezza che solo gli affetti più profondi possono donare, Elizabeth si spegne così, all’improvviso, e smette di respirare accasciandosi silenziosamente sul divano.
È domenica 12 novembre 1865. L’ultimo capitolo di Wives and Daughters uscirà postumo due mesi dopo.
Winifred Gérin,
Referenze iconografiche:
Prima immagine: Elizabeth Gaskell, ritratto di G.Richmond, 1851. Fonte: de.wikipedia. Autore: Phrood. Immagine in pubblico dominio.
Seconda immagine: Elizabeth Gaskell, 1860 ciurca. Fonte: BBC News. Immagine in pubblico dominio.
Voce pubblicata nel: 2015
Ultimo aggiornamento: 2023